Brillarina e il Bambino Gesù
Quella notte la stellina Brillarina scorrazzava con le sue compagne di gioco, nell’immenso cielo nero dei misteriosi abissi siderali, che lei ben conosceva. E, per dirla tutta, si stava proprio divertendo un sacco, quando, all’improvviso, la sua attenzione venne catturata da un suono piuttosto insolito, per lei del tutto sconosciuto.
Ora: il lettore sorriderà, nell’apprendere che, in realtà quel suono misterioso non fosse altro che il tenero vagito di un bambino appena nato. Ma il lettore, dovrà pur comprendere che la nostra Brillarina, giovane stella cometa degli infiniti spazi, non era affatto abituata a “suoni” simili, dal momento che, nascendo, le stelle come lei non vagivano, ma si accendevano subito di una luce vivissima…
Decisa a scoprire cosa mai fosse quel “suono”, Brillarina abbandonò il gruppo delle sue compagne e puntò in basso, verso un pianeta azzurro, dal quale pareva provenisse.
E infatti non si sbagliava: quel vagito era proprio quello di un Bambino appena venuto al mondo, in una fredda stalla, circondata dalle tenebre…
Brillarina si commosse, nel vedere quell’esserino così indifeso e fragile, che piangeva, forse impaurito dal buio che lo circondava. Decise, allora, di fermarsi lì: sul tetto di quella misera stalla, illuminandola con calore e rendendola, così, visibile da molto lontano.
E fu così che grazie a lei, nel giro di poche ore migliaia di persone, in viaggio da molto lontano, riuscirono a giungere presso quella piccola stalla, per rendere omaggio al Bambino Gesù…
Ora: il lettore sorriderà, nell’apprendere che, in realtà quel suono misterioso non fosse altro che il tenero vagito di un bambino appena nato. Ma il lettore, dovrà pur comprendere che la nostra Brillarina, giovane stella cometa degli infiniti spazi, non era affatto abituata a “suoni” simili, dal momento che, nascendo, le stelle come lei non vagivano, ma si accendevano subito di una luce vivissima…
Decisa a scoprire cosa mai fosse quel “suono”, Brillarina abbandonò il gruppo delle sue compagne e puntò in basso, verso un pianeta azzurro, dal quale pareva provenisse.
E infatti non si sbagliava: quel vagito era proprio quello di un Bambino appena venuto al mondo, in una fredda stalla, circondata dalle tenebre…
Brillarina si commosse, nel vedere quell’esserino così indifeso e fragile, che piangeva, forse impaurito dal buio che lo circondava. Decise, allora, di fermarsi lì: sul tetto di quella misera stalla, illuminandola con calore e rendendola, così, visibile da molto lontano.
E fu così che grazie a lei, nel giro di poche ore migliaia di persone, in viaggio da molto lontano, riuscirono a giungere presso quella piccola stalla, per rendere omaggio al Bambino Gesù…
Il colore della neve…
Molto tempo fa, quando il Natale non esisteva ancora, la neve era blu. Sì: proprio blu, come il profondo cielo dal quale proviene e del quale, a quanto pare, “ereditava” il colore.
Ma una notte di un dicembre lontano lontano, accadde qualcosa di sbalorditivo…
Una coppia di giovani sposi, molto poveri, stava cercando un riparo per quella notte freddissima; e non c’era tempo da perdere, dal momento che Maria, la dolcissima moglie di Giuseppe, era ormai prossima a partorire.
Purtroppo, però, per quanto avessero girato e domandato un po’ ovunque, in città non si era trovato un angolino per loro…
Qualcuno, mosso forse a compassione, aveva consigliato a Giuseppe di raggiungere una vecchia stalla, che si trovava appena fuori città e i due giovani, rinfrancati da questa inattesa possibilità, si erano incamminati, Maria a dorso di un asinello e Giuseppe a piedi, accanto a lei.
Ma era una notte davvero molto buia e non appena i due uscirono dalla città iniziò a nevicare; in breve tutto si coprì di un velo blu, che pareva rendesse ancora più fitta l’oscurità…
Maria, con una serenità infinita, si rivolse a Giuseppe:
“Come faremo, con questo buio, a trovare quella piccola stalla nei campi?”
“Non lo so davvero! “, le rispose Giuseppe, stringendole la mano, con un sorriso “Ma ce la faremo, vedrai…!”
Ed ecco che, all’improvviso, la neve cambiò colore; sembrò, quasi, che si ”accendesse” di un bianco brillante e luminoso!
In pochi istanti, il paesaggio tutt’intorno sembrò “illuminarsi”, tanto che Giuseppe riuscì subito a distinguere quella “casetta” scura là, in mezzo alla neve: la piccola stalla che stavano cercando…
Una volta arrivati, Giuseppe e Maria si prepararono trascorrere quella Notte, che avrebbe cambiato per sempre la Storia del Mondo.
E da allora, la neve conservò il suo candido colore…
Ma una notte di un dicembre lontano lontano, accadde qualcosa di sbalorditivo…
Una coppia di giovani sposi, molto poveri, stava cercando un riparo per quella notte freddissima; e non c’era tempo da perdere, dal momento che Maria, la dolcissima moglie di Giuseppe, era ormai prossima a partorire.
Purtroppo, però, per quanto avessero girato e domandato un po’ ovunque, in città non si era trovato un angolino per loro…
Qualcuno, mosso forse a compassione, aveva consigliato a Giuseppe di raggiungere una vecchia stalla, che si trovava appena fuori città e i due giovani, rinfrancati da questa inattesa possibilità, si erano incamminati, Maria a dorso di un asinello e Giuseppe a piedi, accanto a lei.
Ma era una notte davvero molto buia e non appena i due uscirono dalla città iniziò a nevicare; in breve tutto si coprì di un velo blu, che pareva rendesse ancora più fitta l’oscurità…
Maria, con una serenità infinita, si rivolse a Giuseppe:
“Come faremo, con questo buio, a trovare quella piccola stalla nei campi?”
“Non lo so davvero! “, le rispose Giuseppe, stringendole la mano, con un sorriso “Ma ce la faremo, vedrai…!”
Ed ecco che, all’improvviso, la neve cambiò colore; sembrò, quasi, che si ”accendesse” di un bianco brillante e luminoso!
In pochi istanti, il paesaggio tutt’intorno sembrò “illuminarsi”, tanto che Giuseppe riuscì subito a distinguere quella “casetta” scura là, in mezzo alla neve: la piccola stalla che stavano cercando…
Una volta arrivati, Giuseppe e Maria si prepararono trascorrere quella Notte, che avrebbe cambiato per sempre la Storia del Mondo.
E da allora, la neve conservò il suo candido colore…
La stellina di Giacomina
“Che le stelle siano tante, beh: lo sappiamo tutti… Quante? E chi lo sa! Certamente molte di più di quante ne possa immaginare anche il più prodigo di fantasia…
Ebbene, protagonista, anzi: uno dei protagonisti della nostra storiella (rigorosamente “vera”, lo posso quasi garantire…), è proprio una stella.
Era una stella ancora piuttosto giovane (aveva solo qualche milione di anni), ma anche terribilmente triste.
Ed era così triste, perché la sua luce, al contrario di quella delle sue sorelle e sorellastre maggiori, era piuttosto fioca ed insolitamente tremula.
La ragione di questa debolezza era, in verità, ignota a tutti…; ciò che era sicuro è che questa anomalia era motivo di intenso dolore, per la nostra stellina…
Una notte, dalla finestra della sua stanzetta, Giacomina, una bambina piccola piccola, dai capelli biondi e scintillanti come l’oro, piangeva in silenzio, guardando il cielo lontano e limpidissimo. Ed i suoi lacrimoni erano talmente grossi e pesanti che, scivolandole sul visino, finivano per unirsi sul suo grazioso mento, per poi cadere giù, precipitando proprio sulla testolina di Gigì, il paffuto gattone rossiccio, che sonnecchiava su una vecchia sedia di paglia.
Giacomina piangeva, perché il suo amato papà era, da tempo, molto malato e non riusciva a guarire; ci avevano provato tanti dottori, anche di chiara fama, ma nessuno era stato capace di trovare un rimedio ed una cura efficaci.
– Giacomina, piccola mia! -, disse la mamma, con voce stanca, accarezzandole il capo – E’ così tardi… Da brava: torna a letto… –
– Sì mamma, ora vado! – rispose Giacomina – Ancora un attimo soltanto, ti prego…! –
– Va bene, bambina mia… – aggiunse la mamma.
Prima di tornare nel suo lettino, la bambina espresse un desiderio e, nel farlo, fissò una stella… E, guarda caso, fissò proprio la nostra stellina!
Il giorno dopo, di buon mattino, Giacomina fu svegliata da un suono allegro di risate e pianti di gioa.
La bambina, curiosa, senza perdere un attimo saltò giù dal letto; per la fretta pestò la coda al povero Gigì, che miagolò alquanto contrariato, e si precipitò nella camera di mamma e papà…
E li trovò abbracciati, felici, increduli: il papà era improvvisamente guarito ed ora tutto poteva ricominciare…
I tre si strinsero sereni come non mai, mentre Gigì, dal canto suo, si esibiva facendo le fusa…
La notte successiva, Giacomina tornò alla finestra, per guardare, ancora una volta, la “sua” stellina.
La riconobbe subito, anche se, adesso, brillava molto di più di tutte le altre stelle…”
Ebbene, protagonista, anzi: uno dei protagonisti della nostra storiella (rigorosamente “vera”, lo posso quasi garantire…), è proprio una stella.
Era una stella ancora piuttosto giovane (aveva solo qualche milione di anni), ma anche terribilmente triste.
Ed era così triste, perché la sua luce, al contrario di quella delle sue sorelle e sorellastre maggiori, era piuttosto fioca ed insolitamente tremula.
La ragione di questa debolezza era, in verità, ignota a tutti…; ciò che era sicuro è che questa anomalia era motivo di intenso dolore, per la nostra stellina…
Una notte, dalla finestra della sua stanzetta, Giacomina, una bambina piccola piccola, dai capelli biondi e scintillanti come l’oro, piangeva in silenzio, guardando il cielo lontano e limpidissimo. Ed i suoi lacrimoni erano talmente grossi e pesanti che, scivolandole sul visino, finivano per unirsi sul suo grazioso mento, per poi cadere giù, precipitando proprio sulla testolina di Gigì, il paffuto gattone rossiccio, che sonnecchiava su una vecchia sedia di paglia.
Giacomina piangeva, perché il suo amato papà era, da tempo, molto malato e non riusciva a guarire; ci avevano provato tanti dottori, anche di chiara fama, ma nessuno era stato capace di trovare un rimedio ed una cura efficaci.
– Giacomina, piccola mia! -, disse la mamma, con voce stanca, accarezzandole il capo – E’ così tardi… Da brava: torna a letto… –
– Sì mamma, ora vado! – rispose Giacomina – Ancora un attimo soltanto, ti prego…! –
– Va bene, bambina mia… – aggiunse la mamma.
Prima di tornare nel suo lettino, la bambina espresse un desiderio e, nel farlo, fissò una stella… E, guarda caso, fissò proprio la nostra stellina!
Il giorno dopo, di buon mattino, Giacomina fu svegliata da un suono allegro di risate e pianti di gioa.
La bambina, curiosa, senza perdere un attimo saltò giù dal letto; per la fretta pestò la coda al povero Gigì, che miagolò alquanto contrariato, e si precipitò nella camera di mamma e papà…
E li trovò abbracciati, felici, increduli: il papà era improvvisamente guarito ed ora tutto poteva ricominciare…
I tre si strinsero sereni come non mai, mentre Gigì, dal canto suo, si esibiva facendo le fusa…
La notte successiva, Giacomina tornò alla finestra, per guardare, ancora una volta, la “sua” stellina.
La riconobbe subito, anche se, adesso, brillava molto di più di tutte le altre stelle…”
L’ultima rondine e il veliero
Il freddo si era fatto insistente, penetrante; si insinuava nelle ossa, e nelle commessure segrete tra l’anima e il cuore…, quelle che soltanto l’amore può riscaldare.
Il cielo, ormai grigio e pesante, non invitava più al volo spensierato, ma a rifugiarsi tra le accoglienti “pareti” di un piccolo nido ben costruito.
L’Ultima Rondine capì, dunque, che fosse giunto il momento di ripartire, senza poter più rinviare il viaggio, per incontrare una nuova Primavera… lontana.
Di buon mattino puntò verso Sud, secondo quanto le indicavano le Stelle, che conosceva bene e, dopo un po’, la terra sotto di lei scomparve: doveva, infatti, attraversare l’immenso mare…
Dopo qualche ora di volo, la Rondine si sentì chiamare:
– Dove stai andando, così di fretta? -: era un Veliero bellissimo, maestoso, con le sue vele spiegate.
– Vado verso Sud! -, rispose la Rondine, – Per raggiungere la Primavera… –
– Anch’io seguo una rotta verso Sud! -, aggiunse il Veliero, – Viaggiamo insieme? –
– Certamente! – riprese la Rondine, abbassando la quota del suo volo solitario…
Per diversi giorni i due continuarono il loro viaggio, restando vicinissimi, facendosi compagnia, poi, all’improvviso, si alzò un fortissimo vento da Nord-Ovest, freddo e teso…
– Meraviglioso questo Maestrale!! -, esclamò il Veliero, – Me lo voglio proprio godere!!” -, e con andatura portante sparì velocissimo dalla vista della Rondine, ed aggiunse:
– Era proprio il vento che stavo aspettando da tempo! Ma tra poco tornerò: tu aspettami…! –
– Ti aspetto, sì… -, gli rispose un po’ preoccupata la Rondine, – Ma non tardare troppo a lungo: questo vento è molto freddo e le mie ali potrebbero stancarsi presto… Stammi vicino, perché potrei aver bisogno di appoggiarmi sul tuo albero… –
– Non temere! -, fu la risposta del Veliero.
Trascorsero altri giorni, di vento impetuoso e di mare grosso ed il Veliero, rapito dall’ebbrezza del Maestrale, sottovalutò la raccomandazione della Rondine, dimenticandosene e rimandando il suo ritorno…
Poi, all’improvviso, così come si era presentato, urlando la sua potenza, e reclamando il suo potere sul mare, il Maestrale cadde, scomparendo del tutto…; allora il Veliero si decise a tornare.
Ma grande fu il suo dolore, quando si accorse che l’Ultima Rondine, esausta, non ce l’aveva fatta e, cullata dall’onda lunga del mare, con il petto bianchissimo, che quasi luccicava, sotto un pallido Sole, ora galleggiava sull’acqua, con le piccole ali distese, come se stesse ancora volando…
Per raggiungere una Primavera… lontana.
Il cielo, ormai grigio e pesante, non invitava più al volo spensierato, ma a rifugiarsi tra le accoglienti “pareti” di un piccolo nido ben costruito.
L’Ultima Rondine capì, dunque, che fosse giunto il momento di ripartire, senza poter più rinviare il viaggio, per incontrare una nuova Primavera… lontana.
Di buon mattino puntò verso Sud, secondo quanto le indicavano le Stelle, che conosceva bene e, dopo un po’, la terra sotto di lei scomparve: doveva, infatti, attraversare l’immenso mare…
Dopo qualche ora di volo, la Rondine si sentì chiamare:
– Dove stai andando, così di fretta? -: era un Veliero bellissimo, maestoso, con le sue vele spiegate.
– Vado verso Sud! -, rispose la Rondine, – Per raggiungere la Primavera… –
– Anch’io seguo una rotta verso Sud! -, aggiunse il Veliero, – Viaggiamo insieme? –
– Certamente! – riprese la Rondine, abbassando la quota del suo volo solitario…
Per diversi giorni i due continuarono il loro viaggio, restando vicinissimi, facendosi compagnia, poi, all’improvviso, si alzò un fortissimo vento da Nord-Ovest, freddo e teso…
– Meraviglioso questo Maestrale!! -, esclamò il Veliero, – Me lo voglio proprio godere!!” -, e con andatura portante sparì velocissimo dalla vista della Rondine, ed aggiunse:
– Era proprio il vento che stavo aspettando da tempo! Ma tra poco tornerò: tu aspettami…! –
– Ti aspetto, sì… -, gli rispose un po’ preoccupata la Rondine, – Ma non tardare troppo a lungo: questo vento è molto freddo e le mie ali potrebbero stancarsi presto… Stammi vicino, perché potrei aver bisogno di appoggiarmi sul tuo albero… –
– Non temere! -, fu la risposta del Veliero.
Trascorsero altri giorni, di vento impetuoso e di mare grosso ed il Veliero, rapito dall’ebbrezza del Maestrale, sottovalutò la raccomandazione della Rondine, dimenticandosene e rimandando il suo ritorno…
Poi, all’improvviso, così come si era presentato, urlando la sua potenza, e reclamando il suo potere sul mare, il Maestrale cadde, scomparendo del tutto…; allora il Veliero si decise a tornare.
Ma grande fu il suo dolore, quando si accorse che l’Ultima Rondine, esausta, non ce l’aveva fatta e, cullata dall’onda lunga del mare, con il petto bianchissimo, che quasi luccicava, sotto un pallido Sole, ora galleggiava sull’acqua, con le piccole ali distese, come se stesse ancora volando…
Per raggiungere una Primavera… lontana.
Era notte in quella stalla
L’ultima folata di vento fu tremenda, di una violenza inaudita… Irruppe all’interno dell’umile stalla, quasi scardinando la vecchia porticina di legno (che ne era l’antico “custode”, da chissà quanto tempo…), che andò a sbattere fragorosamente contro le disadorne pareti di pietre a vista.
Quella notte sembrava che la furia degli elementi volesse strappare dal suolo quella piccolissima stalla che, invece, si ostinava a resistere al suo posto…
All’interno, un povero bue tremava, al buio, e non soltanto per il freddo…
Poi il vento si placò e la notte si fece tranquilla, per quanto ancora gelida; il cielo divenne terso e scintillante per le miriade di stelle che lo rivestivano… Ma faceva un freddo…
Ad un tratto, in cerca di un riparo, in quella fredda notte di Dicembre, entrarono nella stalla due giovani sposi: Giuseppe, con sua moglie Maria, in groppa ad un giovane asinello, ormai prossima a partorire…
Giuseppe, premuroso e tranquillo, fece adagiare Maria nella mangiatoia, riempita di fieno morbido e profumato… Il bue, allora, timidamente si avvicinò, pensando che, in questo modo, stando gli uni accanto agli altri, avrebbe potuto a combattere meglio il gelo…
Giuseppe lo accarezzò dolcemente sulla possente schiena, mentre un’insolita luce, che pareva provenire dal tetto della stalla, si diffondeva all’interno… E nacque Gesù, senza piangere, tra un bue infreddolito ed un asinello, che ora, erano intenti soltanto a riscaldare il Neonato, con il solo calore di cui disponessero e che rendeva così caldo il loro respiro: quello dell’amore…
Quella notte sembrava che la furia degli elementi volesse strappare dal suolo quella piccolissima stalla che, invece, si ostinava a resistere al suo posto…
All’interno, un povero bue tremava, al buio, e non soltanto per il freddo…
Poi il vento si placò e la notte si fece tranquilla, per quanto ancora gelida; il cielo divenne terso e scintillante per le miriade di stelle che lo rivestivano… Ma faceva un freddo…
Ad un tratto, in cerca di un riparo, in quella fredda notte di Dicembre, entrarono nella stalla due giovani sposi: Giuseppe, con sua moglie Maria, in groppa ad un giovane asinello, ormai prossima a partorire…
Giuseppe, premuroso e tranquillo, fece adagiare Maria nella mangiatoia, riempita di fieno morbido e profumato… Il bue, allora, timidamente si avvicinò, pensando che, in questo modo, stando gli uni accanto agli altri, avrebbe potuto a combattere meglio il gelo…
Giuseppe lo accarezzò dolcemente sulla possente schiena, mentre un’insolita luce, che pareva provenire dal tetto della stalla, si diffondeva all’interno… E nacque Gesù, senza piangere, tra un bue infreddolito ed un asinello, che ora, erano intenti soltanto a riscaldare il Neonato, con il solo calore di cui disponessero e che rendeva così caldo il loro respiro: quello dell’amore…
La vera storia (mai raccontata), della Stella Cometa
Questa che sto per raccontare è la vera storia della Stella Cometa di Natale, rimasta segreta fino ad oggi, e rocambolescamente giunta tra le mie mani (mi riserverò di riferirvi come, in un secondo momento…).
L’Evento era ormai prossimo. Già da qualche migliaio d’anni, infatti (lassù, nello spazio, il tempo assume tutt’altre dimensioni…), nella comunità infinita delle Stelle non si parlava d’altro…: sarebbe nato, di lì a poco, il Signore; si sarebbe chiamato Gesù e sarebbe venuto al mondo in un’umilissima mangiatoia, a Betlemme, in una notte di Dicembre. Tutti si sarebbero recati in pellegrinaggio, per rendere omaggio a Gesù bambino e, per l’occasione, ci sarebbe senz’altro stato bisogno di una Stella, che facesse da guida alle genti in cammino, in quella lunga Notte Santa.
Come si può immaginare, per una Stella della volta celeste si sarebbe trattato di un incarico molto prestigioso, che veniva da molto in alto… Per questo le stelle erano in po’ in agitazione…
Alla fine, venne scelta una giovane Stellina, che fu notata per la sua particolare brillantezza; le fu detto che, per giungere in tempo all’appuntamento di Betlemme, avrebbe dovuto partire immediatamente (le distanze interplanetarie, com’è noto, sono del tutto rimarchevoli…), dopo aver indossato (particolare non da poco…), la sua veste più sgargiante…
Così fece la nostra Stella: si vestì di tutto punto e partì, puntando dritto sulla Terra, senza nemmeno salutare le sorelle più grandi, per la grande emozione…
Ce la mise tutta, fin da subito, tanto che, ormai giunta ad una manciata di anni luce dal Pianeta Azzurro, si accorse di essere un po’ in anticipo; decise, dunque, di fermarsi a riprendere fiato. Per scuotere dalla veste, così preziosa, la fastidiosa polvere cosmica, pensò di togliersi per un attimo, il raro indumento… Ma, ahimè, quest’accortezza, le fu fatale! Non si avvide, infatti, che proprio in quell’istante transitava nei pressi un piccolo, ma voracissimo, Buco Nero, che, in men che non si dica, ingurgitò la bellissima veste della povera Stellina…, per poi sparire, così com’era comparso…
La Stella, com’è comprensibile, iniziò subito a disperarsi, piangendo e singhiozzando talmente forte che, ad un tratto, la Luna in persona si mosse a pietà, chiedendo cosa mai le fosse capitato.
Dopo aver ascoltato la disavventura della sfortunata Stellina, e, soprattutto, dopo aver appreso quale fosse la sua importantissima missione, infatti, la Luna decise di regalarle niente meno che il suo più lungo e luminoso raggio di luce (che conservava, da sempre, per le occasioni importanti, e che non aveva mai usato…!), così potente e bianco da illuminare anche la notte più nera…
La Stellina, di nuovo tranquilla, indossò immediatamente il regalo fattole dalla Luna, così generosa e, nel riprendere il suo viaggio (in realtà, ormai quasi terminato), si accorse, con gran meraviglia, che sfrecciando nel cielo, con indosso quel raggio di Luna, lasciava dietro sé una splendida scia luminosa mai vista prima…
E fu così che, nella notte in cui nacque Gesù, i Re Magi e tutti gli uomini di buona volontà della Terra, riuscirono (ma ci riescono tutt’oggi…), a trovare facilmente la strada, per giungere fino alla piccola e umile mangiatoia di Betlemme: seguendo la prima, felice, Stella Cometa della storia del Mondo…
L’Evento era ormai prossimo. Già da qualche migliaio d’anni, infatti (lassù, nello spazio, il tempo assume tutt’altre dimensioni…), nella comunità infinita delle Stelle non si parlava d’altro…: sarebbe nato, di lì a poco, il Signore; si sarebbe chiamato Gesù e sarebbe venuto al mondo in un’umilissima mangiatoia, a Betlemme, in una notte di Dicembre. Tutti si sarebbero recati in pellegrinaggio, per rendere omaggio a Gesù bambino e, per l’occasione, ci sarebbe senz’altro stato bisogno di una Stella, che facesse da guida alle genti in cammino, in quella lunga Notte Santa.
Come si può immaginare, per una Stella della volta celeste si sarebbe trattato di un incarico molto prestigioso, che veniva da molto in alto… Per questo le stelle erano in po’ in agitazione…
Alla fine, venne scelta una giovane Stellina, che fu notata per la sua particolare brillantezza; le fu detto che, per giungere in tempo all’appuntamento di Betlemme, avrebbe dovuto partire immediatamente (le distanze interplanetarie, com’è noto, sono del tutto rimarchevoli…), dopo aver indossato (particolare non da poco…), la sua veste più sgargiante…
Così fece la nostra Stella: si vestì di tutto punto e partì, puntando dritto sulla Terra, senza nemmeno salutare le sorelle più grandi, per la grande emozione…
Ce la mise tutta, fin da subito, tanto che, ormai giunta ad una manciata di anni luce dal Pianeta Azzurro, si accorse di essere un po’ in anticipo; decise, dunque, di fermarsi a riprendere fiato. Per scuotere dalla veste, così preziosa, la fastidiosa polvere cosmica, pensò di togliersi per un attimo, il raro indumento… Ma, ahimè, quest’accortezza, le fu fatale! Non si avvide, infatti, che proprio in quell’istante transitava nei pressi un piccolo, ma voracissimo, Buco Nero, che, in men che non si dica, ingurgitò la bellissima veste della povera Stellina…, per poi sparire, così com’era comparso…
La Stella, com’è comprensibile, iniziò subito a disperarsi, piangendo e singhiozzando talmente forte che, ad un tratto, la Luna in persona si mosse a pietà, chiedendo cosa mai le fosse capitato.
Dopo aver ascoltato la disavventura della sfortunata Stellina, e, soprattutto, dopo aver appreso quale fosse la sua importantissima missione, infatti, la Luna decise di regalarle niente meno che il suo più lungo e luminoso raggio di luce (che conservava, da sempre, per le occasioni importanti, e che non aveva mai usato…!), così potente e bianco da illuminare anche la notte più nera…
La Stellina, di nuovo tranquilla, indossò immediatamente il regalo fattole dalla Luna, così generosa e, nel riprendere il suo viaggio (in realtà, ormai quasi terminato), si accorse, con gran meraviglia, che sfrecciando nel cielo, con indosso quel raggio di Luna, lasciava dietro sé una splendida scia luminosa mai vista prima…
E fu così che, nella notte in cui nacque Gesù, i Re Magi e tutti gli uomini di buona volontà della Terra, riuscirono (ma ci riescono tutt’oggi…), a trovare facilmente la strada, per giungere fino alla piccola e umile mangiatoia di Betlemme: seguendo la prima, felice, Stella Cometa della storia del Mondo…
Il pupazzo di neve e la stella cometa
Non appena tramontò il sole, fu subito chiaro che, quella che stava per giungere, sarebbe stata una notte freddissima, forse la notte più fredda dell’anno…
Questo, almeno, era quanto pensava un piccolo Pupazzo di Neve, ormai abbandonato e solo, dopo i giochi dei ragazzi, in mezzo ad un campetto innevato, nei pressi del fiumiciattolo ghiacciato su cui i bambini erano soliti scivolare, nei pomeriggi di festa.
Calò il buio, ma era un buio “vivo”, palpitante, vestito di un cielo insolitamente terso e punteggiato di migliaia di favolose stelle, particolarmente scintillanti.
Era una notte che sembrava presagire un evento eccezionale…
Il piccolo Pupazzo di Neve stava ammirando l’incanto della volta celeste, quando, all’improvviso, la sua attenzione venne catturata da una bellissima Stella Cometa, di un color giallo brillante che, lentamente (e, questo, era alquanto bizzarro, meditò subito il Pupazzo…), sembrava dirigersi in un punto ben preciso.
– Chissà dov’è diretta quella Stella Cometa? -, pensò tra sé il Pupazzo di Neve…
La Stella Cometa “sentì” il suo pensiero e, muovendosi in tondo sulla testa bianca del Pupazzo, rispose:
– E’ appena nato un bambino, Signore del Cielo e della Terra, ed io sono stata incaricata di guidare gli uomini fino a Lui, attraverso la notte… E’ lì, che sono diretta! –
Questa volta il Pupazzo rispose a voce alta:
– Oh, quanto vorrei vederlo questo bambino! –
– Lo vuoi davvero? -, domandò la Stella.
– Sì! –
La Cometa, allora, scese piano piano sul campo innevato e, sfiorando appena i piedi di ghiaccio del Pupazzo, con il suo calore lo stacco da terra e se lo caricò sulle spalle, stando bene attenta a mantenere bassa la temperatura…
– Andiamo! -, riprese la Stella Cometa, e ripartirono.
In un attimo arrivarono e la Stella andò ad appoggiarsi sul tetto di un’umile mangiatoia, all’interno della quale stavano Maria, Giuseppe ed il piccolo Gesù, loro splendido figlio, appena venuto al mondo.
– Lo vedi? -, chiese, emozionandosi, la Stella.
– Sì, lo vedo: è bellissimo! -, rispose il Pupazzo, commosso – Vorrei tanto poterlo accarezzare…! –
– Lo vuoi veramente…? -, aggiunse la Cometa.
– Sì. Ma freddo come sono finirei senz’altro per farlo piangere… -, disse, rammaricandosi, il Pupazzo di Neve.
– Io posso evitare che ciò accada! -, specificò la Stella – Ma poi non potrai più tornare ad essere un Pupazzo di Neve…! –
– Non mi importa! – fu la risposta sincera…
In un baleno di luce, allora, la Stella tramutò il Pupazzo in una piccola goccia d’acqua, scintillante e calda, che, come una lacrima, andò a posarsi sul volto del bambino…
Gesù sorrise…
Questo, almeno, era quanto pensava un piccolo Pupazzo di Neve, ormai abbandonato e solo, dopo i giochi dei ragazzi, in mezzo ad un campetto innevato, nei pressi del fiumiciattolo ghiacciato su cui i bambini erano soliti scivolare, nei pomeriggi di festa.
Calò il buio, ma era un buio “vivo”, palpitante, vestito di un cielo insolitamente terso e punteggiato di migliaia di favolose stelle, particolarmente scintillanti.
Era una notte che sembrava presagire un evento eccezionale…
Il piccolo Pupazzo di Neve stava ammirando l’incanto della volta celeste, quando, all’improvviso, la sua attenzione venne catturata da una bellissima Stella Cometa, di un color giallo brillante che, lentamente (e, questo, era alquanto bizzarro, meditò subito il Pupazzo…), sembrava dirigersi in un punto ben preciso.
– Chissà dov’è diretta quella Stella Cometa? -, pensò tra sé il Pupazzo di Neve…
La Stella Cometa “sentì” il suo pensiero e, muovendosi in tondo sulla testa bianca del Pupazzo, rispose:
– E’ appena nato un bambino, Signore del Cielo e della Terra, ed io sono stata incaricata di guidare gli uomini fino a Lui, attraverso la notte… E’ lì, che sono diretta! –
Questa volta il Pupazzo rispose a voce alta:
– Oh, quanto vorrei vederlo questo bambino! –
– Lo vuoi davvero? -, domandò la Stella.
– Sì! –
La Cometa, allora, scese piano piano sul campo innevato e, sfiorando appena i piedi di ghiaccio del Pupazzo, con il suo calore lo stacco da terra e se lo caricò sulle spalle, stando bene attenta a mantenere bassa la temperatura…
– Andiamo! -, riprese la Stella Cometa, e ripartirono.
In un attimo arrivarono e la Stella andò ad appoggiarsi sul tetto di un’umile mangiatoia, all’interno della quale stavano Maria, Giuseppe ed il piccolo Gesù, loro splendido figlio, appena venuto al mondo.
– Lo vedi? -, chiese, emozionandosi, la Stella.
– Sì, lo vedo: è bellissimo! -, rispose il Pupazzo, commosso – Vorrei tanto poterlo accarezzare…! –
– Lo vuoi veramente…? -, aggiunse la Cometa.
– Sì. Ma freddo come sono finirei senz’altro per farlo piangere… -, disse, rammaricandosi, il Pupazzo di Neve.
– Io posso evitare che ciò accada! -, specificò la Stella – Ma poi non potrai più tornare ad essere un Pupazzo di Neve…! –
– Non mi importa! – fu la risposta sincera…
In un baleno di luce, allora, la Stella tramutò il Pupazzo in una piccola goccia d’acqua, scintillante e calda, che, come una lacrima, andò a posarsi sul volto del bambino…
Gesù sorrise…
Il cero e la fiammella
Dopo un’intera giornata di tuoni e nuvole minacciose, all’improvviso la sera si fece notte. Il buio colse alle spalle il tramonto, insinuandosi ovunque; un tramonto che non riuscì a rasserenare i cuori della gente, con il suo consueto rossore…
E nelle stanze del vecchio castello sulla collina chiese ospitalità quella notte così prematura, vestendo di sé, una volta accolta, ogni ambiente…Qualcuno, non senza esitazione, dopo aver ben chiuso le grandi finestre, dalle quali, insieme al buio, entrava un vento impetuoso, accostò un bastoncino al fuoco crepitante del caminetto e rubò una fiammella, che andò poi ad appoggiare sul grande cero posto sul tavolo dello studio.
Avvertendo l’improvvisa presenza della fiammella, il cero (che non era mai stato acceso prima…), domandò, con tono deciso:
– Chi sei, tu? –
– Sono una fiammella -, fu la risposta, – Mi hanno portato via con l’inganno, strappandomi dalla mia famiglia, ed ora sono sola…: non rivedrò mai più le mie sorelle… Ti prego: non mandarmi via -, concluse la fiammella, con un filo di voce, vibrando così intensamente, da rendere tremanti tutte le ombre, che pareva fossero appoggiate alle pareti della stanza…
Il cero comprese lo strazio della fiammella e la rassicurò:
– No, io non ti manderò via, mia dolce fiammella… Fino ad oggi -, continuò – Ho conosciuto soltanto una buia solitudine… Ma ora, con te, ho la luce nel mio cuore…! –
La fiammella, nell’udire quelle parole, brillò d’un lampo più vivo…; i due si innamorarono profondamente.
– Restami accanto per sempre, amore mio -, riprese il cero – Perché senza di te tornerei ad essere nient’altro che un inutile pezzo di cera… –
– Sì, mio caro -, rispose la fiammella – Ma in questo modo ti consumerai sempre di più…! –
Il cero lo sapeva, ma non disse niente, perché, adesso, non gli importava più…
Il cero e la fiammella restarono così, tutta la notte, stretti l’uno all’altra, entrambi consapevoli che abbandonarsi in quell’abbraccio sereno significasse anche celebrare un addio inesorabile…
All’alba, quando cantò il gallo (la tempesta era ormai lontana…), la fiammella, sentendosi mancare il respiro, disse, in un sospiro:
– Mio unico amore…, io devo andare…, ma tu…, tu non dimenticarmi… –
– No… -, fu la risposta del cero, ormai consumato – Non ti dimenticherò mai… Ecco, amore mio: non ho più…, la forza…, di sorreggerti… –
E la fiammella scomparve…; tornò la penombra.
Nella stanza non rimasero che una manciata di cera disciolta ed un insolito, intenso calore, che sembrava avesse qualcosa di grande da raccontare al nuovo giorno, appena nato…
E nelle stanze del vecchio castello sulla collina chiese ospitalità quella notte così prematura, vestendo di sé, una volta accolta, ogni ambiente…Qualcuno, non senza esitazione, dopo aver ben chiuso le grandi finestre, dalle quali, insieme al buio, entrava un vento impetuoso, accostò un bastoncino al fuoco crepitante del caminetto e rubò una fiammella, che andò poi ad appoggiare sul grande cero posto sul tavolo dello studio.
Avvertendo l’improvvisa presenza della fiammella, il cero (che non era mai stato acceso prima…), domandò, con tono deciso:
– Chi sei, tu? –
– Sono una fiammella -, fu la risposta, – Mi hanno portato via con l’inganno, strappandomi dalla mia famiglia, ed ora sono sola…: non rivedrò mai più le mie sorelle… Ti prego: non mandarmi via -, concluse la fiammella, con un filo di voce, vibrando così intensamente, da rendere tremanti tutte le ombre, che pareva fossero appoggiate alle pareti della stanza…
Il cero comprese lo strazio della fiammella e la rassicurò:
– No, io non ti manderò via, mia dolce fiammella… Fino ad oggi -, continuò – Ho conosciuto soltanto una buia solitudine… Ma ora, con te, ho la luce nel mio cuore…! –
La fiammella, nell’udire quelle parole, brillò d’un lampo più vivo…; i due si innamorarono profondamente.
– Restami accanto per sempre, amore mio -, riprese il cero – Perché senza di te tornerei ad essere nient’altro che un inutile pezzo di cera… –
– Sì, mio caro -, rispose la fiammella – Ma in questo modo ti consumerai sempre di più…! –
Il cero lo sapeva, ma non disse niente, perché, adesso, non gli importava più…
Il cero e la fiammella restarono così, tutta la notte, stretti l’uno all’altra, entrambi consapevoli che abbandonarsi in quell’abbraccio sereno significasse anche celebrare un addio inesorabile…
All’alba, quando cantò il gallo (la tempesta era ormai lontana…), la fiammella, sentendosi mancare il respiro, disse, in un sospiro:
– Mio unico amore…, io devo andare…, ma tu…, tu non dimenticarmi… –
– No… -, fu la risposta del cero, ormai consumato – Non ti dimenticherò mai… Ecco, amore mio: non ho più…, la forza…, di sorreggerti… –
E la fiammella scomparve…; tornò la penombra.
Nella stanza non rimasero che una manciata di cera disciolta ed un insolito, intenso calore, che sembrava avesse qualcosa di grande da raccontare al nuovo giorno, appena nato…
La Vera Storiella Dell’Orco Ludovico
C'era una volta (e, probabilmente, c’è ancora…), un Orco molto particolare, di nome Ludovico.
Era figlio di un Orco molto famoso, che era stato il protagonista acclamato di decine e decine di favole e racconti, ma che ora, giunto ormai alla rispettabile età di 500 anni, avrebbe voluto ritirarsi a vita privata, cedendo il posto, secondo la più prevedibile tradizione famigliare, al figlio: Ludovico, appunto.
Solo che Ludovico aveva un imperdonabile difetto: era un Orco buono. Certo, aveva tutte le caratteristiche tipiche di un Orco: era alto e peloso; aveva denti enormi e sporgenti; sfoggiava sopracciglia folte e nerissime; possedeva due mani grandi e possenti, con unghie massicce; poteva vantare due piedi veramente impressionanti, in quanto a misura…, ma – ed era questo il punto -, aveva due occhi profondi ed intensi, oltre ad uno sguardo decisamente pacifico, che lasciava intuire un’indole tutt’altro che malvagia.
Ci avevano provato tutti, in famiglia, a cercare di trovare una soluzione a questo gravissimo inconveniente, ma, alla fine, si erano dovuti tutti arrendere alla vergognosa evidenza dei fatti: Ludovico era un Orco terribilmente buono. E non ci si poteva fare proprio niente.
E, infatti, Ludovico coltivava interessi del tutto inusuali, tra la categoria degli Orchi. Ad esempio, amava le api, quegli esserini così piccoli, ma in grado di produrre un nettare dolce e squisito, come il miele; e poi era abilissimo a fischiare (mentre gli altri Orchi non sapevano emettere che raggelanti grugniti, o dirompenti urla baritonali…), e trascorreva pomeriggi interi a gorgheggiare allegramente i motivi più diversi, con sommo disgusto del padre…
Ludovico, inoltre, non era certo un pelandrone: aveva anche cercato di trovare un’occupazione degna del suo rango, ma le cose, come potete immaginare, non erano andate proprio bene…
Una volta aveva tentato di ottenere una particina secondaria in una nuova fiaba, ma non c’era stato niente da fare: fu scartato al primo colloquio.
- Deve capire, Orco Ludovico – gli dissero – Lei sarà pure un bell’Orco, su questo non si discute, ma con quegli occhi lì…, per carità…! Lei non farebbe paura nemmeno a una mosca, mi creda! Nelle mie fiabe non c’è posto per tipi come lei! Arrivederci! –
- Potrei indossare degli occhiali scuri, che ne dice…? – aveva provato ad incalzare Ludovico, innervosendo, soltanto, il suo interlocutore.
- Mi dia retta: cambi mestiere. – fu la risposta – Provi in un asilo…! –
- Ma non se ne parla nemmeno – lo apostrofarono all’asilo del paese – Lei con quella faccia mi farebbe scappare tutti i bambini!! No, no… Anzi, se ne vada prima che suoni la campanella dell’entrata, su, sia gentile…! –
Ludovico ci rimase molto male ed uscì, accompagnando la porta lentamente…
Fuori già splendeva il sole, e Ludovico si sedette su una panchina, a riflettere un po’, quando, ad un tratto, accanto a lui si posò uno splendido merlo, nero, lucido e con un magnifico becco giallo. Il merlo cominciò a singhiozzare…
- Perché piangi, mio piccolo amico? – chiese con tenerezza Ludovico.
- Perché? Ma perché non so fischiare! Ti rendi conto? – rispose il merlo – Senti? –, ed emise un verso davvero sgraziato e fastidioso, più simile al gracidare di una rana, che al canto di un merlo…
- Ma ti insegnerò io a fischiare!! – replicò Ludovico balzando in piedi felice ed iniziando a dare un saggio delle sue capacità.
Il merlo non stava più nella penne e si posò sulla spalla di Ludovico, indicandogli la strada di casa, attraverso il fitto bosco…
Da quel giorno, tutti poterono godere delle incantevoli armonie e dei concerti, che provenivano dal fitto bosco, vicino al paese: Ludovico ed il suo amico merlo si esercitavano quotidianamente, infatti, raggiungendo sempre risultati strepitosi…
Ludovico inoltre, ma questo si seppe in seguito, diventò un eccellente apicoltore, ed il suo miele, di qualità assai pregiata, venne esportato in tutto il mondo, con la seguente etichetta: “IL MIELE DELL’ORCO”.
Era figlio di un Orco molto famoso, che era stato il protagonista acclamato di decine e decine di favole e racconti, ma che ora, giunto ormai alla rispettabile età di 500 anni, avrebbe voluto ritirarsi a vita privata, cedendo il posto, secondo la più prevedibile tradizione famigliare, al figlio: Ludovico, appunto.
Solo che Ludovico aveva un imperdonabile difetto: era un Orco buono. Certo, aveva tutte le caratteristiche tipiche di un Orco: era alto e peloso; aveva denti enormi e sporgenti; sfoggiava sopracciglia folte e nerissime; possedeva due mani grandi e possenti, con unghie massicce; poteva vantare due piedi veramente impressionanti, in quanto a misura…, ma – ed era questo il punto -, aveva due occhi profondi ed intensi, oltre ad uno sguardo decisamente pacifico, che lasciava intuire un’indole tutt’altro che malvagia.
Ci avevano provato tutti, in famiglia, a cercare di trovare una soluzione a questo gravissimo inconveniente, ma, alla fine, si erano dovuti tutti arrendere alla vergognosa evidenza dei fatti: Ludovico era un Orco terribilmente buono. E non ci si poteva fare proprio niente.
E, infatti, Ludovico coltivava interessi del tutto inusuali, tra la categoria degli Orchi. Ad esempio, amava le api, quegli esserini così piccoli, ma in grado di produrre un nettare dolce e squisito, come il miele; e poi era abilissimo a fischiare (mentre gli altri Orchi non sapevano emettere che raggelanti grugniti, o dirompenti urla baritonali…), e trascorreva pomeriggi interi a gorgheggiare allegramente i motivi più diversi, con sommo disgusto del padre…
Ludovico, inoltre, non era certo un pelandrone: aveva anche cercato di trovare un’occupazione degna del suo rango, ma le cose, come potete immaginare, non erano andate proprio bene…
Una volta aveva tentato di ottenere una particina secondaria in una nuova fiaba, ma non c’era stato niente da fare: fu scartato al primo colloquio.
- Deve capire, Orco Ludovico – gli dissero – Lei sarà pure un bell’Orco, su questo non si discute, ma con quegli occhi lì…, per carità…! Lei non farebbe paura nemmeno a una mosca, mi creda! Nelle mie fiabe non c’è posto per tipi come lei! Arrivederci! –
- Potrei indossare degli occhiali scuri, che ne dice…? – aveva provato ad incalzare Ludovico, innervosendo, soltanto, il suo interlocutore.
- Mi dia retta: cambi mestiere. – fu la risposta – Provi in un asilo…! –
- Ma non se ne parla nemmeno – lo apostrofarono all’asilo del paese – Lei con quella faccia mi farebbe scappare tutti i bambini!! No, no… Anzi, se ne vada prima che suoni la campanella dell’entrata, su, sia gentile…! –
Ludovico ci rimase molto male ed uscì, accompagnando la porta lentamente…
Fuori già splendeva il sole, e Ludovico si sedette su una panchina, a riflettere un po’, quando, ad un tratto, accanto a lui si posò uno splendido merlo, nero, lucido e con un magnifico becco giallo. Il merlo cominciò a singhiozzare…
- Perché piangi, mio piccolo amico? – chiese con tenerezza Ludovico.
- Perché? Ma perché non so fischiare! Ti rendi conto? – rispose il merlo – Senti? –, ed emise un verso davvero sgraziato e fastidioso, più simile al gracidare di una rana, che al canto di un merlo…
- Ma ti insegnerò io a fischiare!! – replicò Ludovico balzando in piedi felice ed iniziando a dare un saggio delle sue capacità.
Il merlo non stava più nella penne e si posò sulla spalla di Ludovico, indicandogli la strada di casa, attraverso il fitto bosco…
Da quel giorno, tutti poterono godere delle incantevoli armonie e dei concerti, che provenivano dal fitto bosco, vicino al paese: Ludovico ed il suo amico merlo si esercitavano quotidianamente, infatti, raggiungendo sempre risultati strepitosi…
Ludovico inoltre, ma questo si seppe in seguito, diventò un eccellente apicoltore, ed il suo miele, di qualità assai pregiata, venne esportato in tutto il mondo, con la seguente etichetta: “IL MIELE DELL’ORCO”.
Il Ponte e la Roccia
Il piccolo paese alle pendici del monte era ormai cresciuto. Il Sindaco, allora, dopo aver consultato velocemente i suoi più fidati collaboratori ed esperti del settore, decise che fosse giunto il momento di “ingrandirsi”, raggiungendo l’altra sponda del fiumiciattolo, che lambiva il lato Ovest del piccolo villaggio.
La decisione venne accolta con molto entusiasmo dall’intera popolazione: proprio lì, vicino al vecchio salice, si sarebbe costruito un ponte di legno, di ultima generazione, che avrebbe aperto nuovi orizzonti per tutti.
La sera prima dell’inizio dei lavori, ci fu una gran festa, con danze e fuochi d’artificio e all’indomani, di buon mattino, fu dato il via all’impresa.
Il nuovo ponte, che fu battezzato “Ponte del Ritorno”, fu ultimato in meno di quindici giorni, e già un paio d’ore dopo la sua inaugurazione era entrato in pieno servizio; tutti si dichiararono fin da subito entusiasti della sua efficienza.
All’alba di una bellissima giornata di Primavera, il Ponte del Ritorno aprì gli occhi e dopo essersi guardato attorno pensò tra sé:
- Che magnifico Ponte sono…: solido e ben disegnato… E che splendido paesaggio mi circonda… Alberi, fiori, prati vellutati…, e questo tranquillo corso d’acqua… -
Nel pensare questo, il Ponte guardò sotto di sé, e si accorse, a qualche decina di metri più in là, di una enorme roccia nera, che emergeva decisa proprio in mezzo al corso del fiumiciattolo.
Era una roccia antichissima, che persino i più anziani del paese ricordavano lì da sempre, o forse da prima…, e che qualcuno, affettuosamente, chiamava “Roccia Matilde”.
- Ehi, tu! -, esordì il Ponte – Parlo con te, sai? –
Ma nessuno rispose…
- Non sei forse tu quella che chiamano “Roccia Matilde”? -, riprese il Ponte, con tono sprezzante.
- Sì, sono io… – rispose la Roccia – Anche se non mi chiamo Matilde…; non mi sono mai chiamata così…! -
- Beh, Matilde o no –, replicò il Ponte – Resti sempre un’inutile ingombro in mezzo al nostro bel fiumiciattolo… Buono soltanto a separare le acque, che potrebbero scorrere così tranquille, se soltanto tu ti levassi di torno!! -, concluse, con una sonora risata.
Roccia Matilde restò in silenzio, lasciandosi accarezzare, come faceva da quando era nata, dalla lieve carezza della verde acqua del fiume…
Le cose andarono avanti così per tutta la Primavera e per tutta l’Estate successiva: il Ponte non perdeva occasione per deridere la Roccia sotto di sé, ogni volta rimarcando il fatto che lui, il Ponte, rendeva un gran servizio alla comunità degli uomini, consentendo collegamenti rapidi e sicuri, tra una sponda e l’altra del fiume, mentre lei, la Roccia, non faceva altro che poltrire, lasciandosi scorrere addosso le ore, come la corrente placida delle acque…
Roccia Matilde, finì per abituarsi alle continue provocazioni subite dal Ponte, sino al punto di non accorgersene nemmeno più…
Dal canto suo, il Ponte non tollerava l’indisponente calma della Roccia e, per questa ragione, ogni volta che si rivolgeva a lei, per offenderla, si faceva sempre più graffiante e cattivo.
Finì l’Estate… E volle finire nel peggiore dei modi: una sera di fine Settembre il cielo si fece scurissimo; la gente si chiuse in casa spaventata; si alzò un vento mai giunto lì prima di allora; nella notte si scatenò un nubifragio tremendo, carico di fulmini, tuoni e quant’altro di terribile la Natura potesse liberare… La pioggia fu fitta, pesante, incessante, fino al mattino…
Il fiume, inoltre, aveva cambiato il proprio aspetto, rompendo gli argini e trascinando via ogni cosa che potesse essere divelta dalla propria sede. Il buon, vecchio salice, infatti, fu sradicato in un battibaleno…, e con lui, molti altri alberi…
Anche il Ponte del Ritorno non scampò a questo destino: venne spazzato via dalla furia della corrente, come se fosse stato un ponticello di carta di giornale…
- Oh, povero me!! –, gridava il Ponte – Come può succedere a me tutto questo? Non mi salverò più… Aiuto, aiuto…! –
Rassegnato alla propria imminente fine, ormai certo che sarebbe stato trascinato ed abbandonato chissà dove dall’impeto delle acque, ecco che, all’improvviso, il Ponte si rese conto che la sua terribile corsa sul fiume si era arrestata: la Roccia Matilde, che durante tutto quel trambusto non si era spostata di un solo millimetro, aveva bloccato la mortale deriva del Ponte, trattenendolo sicura accanto a sé, sino al placarsi della furia del fiume…
Il Ponte comprese, allora, di essere stato molto ingiusto, con la Roccia Matilde che, tranquilla come sempre, gli rispose con un sorriso.
Da allora, il Ponte del Ritorno e la Roccia Matilde vissero da buoni amici ed ancora oggi, passando da una sponda all’altra del fiume, nelle belle giornate di Primavera, li si può sentire chiacchierare e scherzare amabilmente.
La decisione venne accolta con molto entusiasmo dall’intera popolazione: proprio lì, vicino al vecchio salice, si sarebbe costruito un ponte di legno, di ultima generazione, che avrebbe aperto nuovi orizzonti per tutti.
La sera prima dell’inizio dei lavori, ci fu una gran festa, con danze e fuochi d’artificio e all’indomani, di buon mattino, fu dato il via all’impresa.
Il nuovo ponte, che fu battezzato “Ponte del Ritorno”, fu ultimato in meno di quindici giorni, e già un paio d’ore dopo la sua inaugurazione era entrato in pieno servizio; tutti si dichiararono fin da subito entusiasti della sua efficienza.
All’alba di una bellissima giornata di Primavera, il Ponte del Ritorno aprì gli occhi e dopo essersi guardato attorno pensò tra sé:
- Che magnifico Ponte sono…: solido e ben disegnato… E che splendido paesaggio mi circonda… Alberi, fiori, prati vellutati…, e questo tranquillo corso d’acqua… -
Nel pensare questo, il Ponte guardò sotto di sé, e si accorse, a qualche decina di metri più in là, di una enorme roccia nera, che emergeva decisa proprio in mezzo al corso del fiumiciattolo.
Era una roccia antichissima, che persino i più anziani del paese ricordavano lì da sempre, o forse da prima…, e che qualcuno, affettuosamente, chiamava “Roccia Matilde”.
- Ehi, tu! -, esordì il Ponte – Parlo con te, sai? –
Ma nessuno rispose…
- Non sei forse tu quella che chiamano “Roccia Matilde”? -, riprese il Ponte, con tono sprezzante.
- Sì, sono io… – rispose la Roccia – Anche se non mi chiamo Matilde…; non mi sono mai chiamata così…! -
- Beh, Matilde o no –, replicò il Ponte – Resti sempre un’inutile ingombro in mezzo al nostro bel fiumiciattolo… Buono soltanto a separare le acque, che potrebbero scorrere così tranquille, se soltanto tu ti levassi di torno!! -, concluse, con una sonora risata.
Roccia Matilde restò in silenzio, lasciandosi accarezzare, come faceva da quando era nata, dalla lieve carezza della verde acqua del fiume…
Le cose andarono avanti così per tutta la Primavera e per tutta l’Estate successiva: il Ponte non perdeva occasione per deridere la Roccia sotto di sé, ogni volta rimarcando il fatto che lui, il Ponte, rendeva un gran servizio alla comunità degli uomini, consentendo collegamenti rapidi e sicuri, tra una sponda e l’altra del fiume, mentre lei, la Roccia, non faceva altro che poltrire, lasciandosi scorrere addosso le ore, come la corrente placida delle acque…
Roccia Matilde, finì per abituarsi alle continue provocazioni subite dal Ponte, sino al punto di non accorgersene nemmeno più…
Dal canto suo, il Ponte non tollerava l’indisponente calma della Roccia e, per questa ragione, ogni volta che si rivolgeva a lei, per offenderla, si faceva sempre più graffiante e cattivo.
Finì l’Estate… E volle finire nel peggiore dei modi: una sera di fine Settembre il cielo si fece scurissimo; la gente si chiuse in casa spaventata; si alzò un vento mai giunto lì prima di allora; nella notte si scatenò un nubifragio tremendo, carico di fulmini, tuoni e quant’altro di terribile la Natura potesse liberare… La pioggia fu fitta, pesante, incessante, fino al mattino…
Il fiume, inoltre, aveva cambiato il proprio aspetto, rompendo gli argini e trascinando via ogni cosa che potesse essere divelta dalla propria sede. Il buon, vecchio salice, infatti, fu sradicato in un battibaleno…, e con lui, molti altri alberi…
Anche il Ponte del Ritorno non scampò a questo destino: venne spazzato via dalla furia della corrente, come se fosse stato un ponticello di carta di giornale…
- Oh, povero me!! –, gridava il Ponte – Come può succedere a me tutto questo? Non mi salverò più… Aiuto, aiuto…! –
Rassegnato alla propria imminente fine, ormai certo che sarebbe stato trascinato ed abbandonato chissà dove dall’impeto delle acque, ecco che, all’improvviso, il Ponte si rese conto che la sua terribile corsa sul fiume si era arrestata: la Roccia Matilde, che durante tutto quel trambusto non si era spostata di un solo millimetro, aveva bloccato la mortale deriva del Ponte, trattenendolo sicura accanto a sé, sino al placarsi della furia del fiume…
Il Ponte comprese, allora, di essere stato molto ingiusto, con la Roccia Matilde che, tranquilla come sempre, gli rispose con un sorriso.
Da allora, il Ponte del Ritorno e la Roccia Matilde vissero da buoni amici ed ancora oggi, passando da una sponda all’altra del fiume, nelle belle giornate di Primavera, li si può sentire chiacchierare e scherzare amabilmente.
Il Racconto del Pittore Cieco
Il suono sordo dei passi sul ponticello di legno, che collegava la strada al piccolo parco, si interruppe bruscamente. Tommaso, infatti, si era arrestato all’improvviso, avendo costatato che, ormai, le rondini se ne erano andate. Del resto, Ottobre era già ben oltre la metà del suo percorso ed il consueto manto di silenzio, tipico dell’autunno, si andava stendendo sempre di più tutt’intorno.
Era una splendida domenica mattina e, sebbene fosse ancora piuttosto presto, il cielo si era tinto di vivi colori, che stimolavano la fantasia di Tommaso.
Tommaso era un giovane pittore, brillante studente dell’Accademia di Belle Arti della sua città e, a detta di molti, era un artista di sicuro talento, uno di quelli che, si diceva, avrebbe certamente fatto parlare di sé, un domani.
Come ogni domenica, anche quel giorno Tommaso, con cavalletto e colori, si recava al parco, ancora sonnacchioso, per cogliere e fissare sulla tela le atmosfere e gli attimi unici di certi momenti.
Tommaso viveva da solo, da quando, un paio di anni prima, aveva lasciato la famiglia, sua madre ed una sorella piccola, per poter studiare all’Accademia, ma, sempre assorto com’era nei suoi slanci creativi, non si curava affatto della solitudine, affrontandola, anzi, come una sorta di “gioco”…
Lunedì mattina, dopo aver accarezzato, come d’abitudine, Socrate, il suo gatto siamese, Tommaso guardò fuori dalla finestra e rimase stupito per la fitta nebbia che – pensò -, quest’anno si era presentata piuttosto in anticipo.
- “Guarda, Socrate” – disse a bassa voce – “Non si riesce a vedere nemmeno il campanile della Chiesa…! Sarà bene che mi sbrighi…” -
Tommaso scese velocemente le scale e con passo deciso si diresse alla stazione, per prendere il treno delle sette, che lo avrebbe portato in città.
La locomotiva, pigramente, tra sbuffi e nuvole di fumo iniziò a muoversi, salutando la stazioncina con un brevissimo fischio, che sembrò a tutti più acuto del solito; il giovane pittore, dopo aver sbirciato se fosse salita sul treno anche Elena, la ragazza di cui era segretamente innamorato, andò a sedersi al suo solito posto.
- “Prima di Natale”- pensava tra sé –“Parlerò con Elena e le dirò tutto…” –
Dopo pochi minuti, il treno si arrestò, per la prima delle quattro fermate previste.
Tommaso non ci fece caso, abituato com’era a quel tragitto, ma non appena la locomotiva ricominciò ad arrancare sui binari, si accorse di qualcosa di nuovo: una bambina, dai capelli rossi, accompagnata da una anziana suora, si era affacciata nello scompartimento, per poi sedersi, proprio di fronte a lui, sempre tenendo per mano la sua accompagnatrice.
Tommaso non aveva mai visto quella bambina e, sorridendo alla suora che lo stava osservando, pensò che, probabilmente, si trattasse di una piccola ospite dell’Orfanotrofio di quel piccolo paese.
- “Ciao, come ti chiami?” – chiese Tommaso piegandosi verso la bambina, che pareva incantata.
- “Da brava: rispondi, cara…” – la esortò la suora con tono dolce.
- “Mi chiamo Marinella, signore…” – “e tu, come ti chiami?” – rispose la bambina, unendo le piccole mani sul petto.
- “Mi chiamo Tommaso…” -
Nel rispondere alla bambina, il giovane pittore fece per allungare la mano, in segno di saluto, ma si accorse che la suora, scuotendo il capo ed avvicinando un indice ai propri occhi, voleva fargli capire qualcosa, senza che Marinella se ne accorgesse.
La bambina non si sarebbe mai accorta della mano protesa verso di lei: Marinella era una bambina cieca; lo era dalla nascita.
Eppure i suoi occhi, di un incantevole azzurro, così acceso e vivace, erano inaspettatamente espressivi ed intensi e trasmettevano una insolita serenità, come se riuscissero a “vedere” soltanto l’anima delle persone...
Tommaso rimase molto colpito da quell’incontro e per tutta la giornata non fece che pensare, rattristandosene, a quegli occhi innocenti colore del cielo, chiusi sul mondo…
Per diversi giorni, suor Letizia e Marinella presero lo stesso treno di Tommaso, poi, improvvisamente, il giovane pittore non le vide più.
Tommaso, però, si era molto affezionato a Marinella: decise che, un giorno, sarebbe andato a trovarla all’Orfanotrofio ed avrebbe trascorso una giornata con lei, tenendole compagnia.
Una sera, Tommaso si risvegliò d’improvviso, per il boato di un tuono. Si era addormentato sulla poltrona, davanti al caminetto, ma l’arrivo di un violentissimo temporale aveva interrotto il suo sonno, ed aveva spaventato il gatto, che era corso a nascondersi.
Il giovane pittore, colto da una improvvisa ispirazione, afferrò il carboncino ed il blocco dei fogli da disegno, appoggiati sul tavolino ed iniziò a fissare qualcosa sulla carta bianca. Il suo pensiero cadde su Marinella…
Abilmente le sue mani cominciarono a danzare, volteggiando sicure sul foglio, sul quale, dopo pochi minuti, apparve il disegno di due intensi occhi chiari: quelli della bambina cieca…
“Povera bambina…” – pensò, nel frattempo – “Perché i tuoi occhi non possono che vedere il buio delle tue giornate…? Perché…?” -
Terminato il disegno, Tommaso, colto da un torpore profondo e da un insolito bruciore agli occhi, si riaddormentò; il temporale, intanto, si era ormai allontanato…
La mattina dopo, svegliandosi e riaprendo gli occhi, Tommaso si accorse di non vederci più…, ma, incredibilmente, non se ne sorprese più di tanto. Inspiegabilmente, inoltre, i due occhi disegnati qualche ora prima erano spariti dal foglio di carta, come se fossero stati accuratamente cancellati da una mano invisibile. Ma di questo particolare, Tommaso non si sarebbe mai accorto...
Nello stesso istante, all’Orfanotrofio, Marinella, tenendo tra le mani un’arancia ed una mela, correva sicura verso suor Letizia, paralizzata dallo stupore e visibilmente commossa, chiedendo felice:
- “Suor Letizia, sono questi i colori, non è vero…? Sono questi…?” -
- “Sì, bambina mia…, sì…!: sono quelli, i colori…! –
Era una splendida domenica mattina e, sebbene fosse ancora piuttosto presto, il cielo si era tinto di vivi colori, che stimolavano la fantasia di Tommaso.
Tommaso era un giovane pittore, brillante studente dell’Accademia di Belle Arti della sua città e, a detta di molti, era un artista di sicuro talento, uno di quelli che, si diceva, avrebbe certamente fatto parlare di sé, un domani.
Come ogni domenica, anche quel giorno Tommaso, con cavalletto e colori, si recava al parco, ancora sonnacchioso, per cogliere e fissare sulla tela le atmosfere e gli attimi unici di certi momenti.
Tommaso viveva da solo, da quando, un paio di anni prima, aveva lasciato la famiglia, sua madre ed una sorella piccola, per poter studiare all’Accademia, ma, sempre assorto com’era nei suoi slanci creativi, non si curava affatto della solitudine, affrontandola, anzi, come una sorta di “gioco”…
Lunedì mattina, dopo aver accarezzato, come d’abitudine, Socrate, il suo gatto siamese, Tommaso guardò fuori dalla finestra e rimase stupito per la fitta nebbia che – pensò -, quest’anno si era presentata piuttosto in anticipo.
- “Guarda, Socrate” – disse a bassa voce – “Non si riesce a vedere nemmeno il campanile della Chiesa…! Sarà bene che mi sbrighi…” -
Tommaso scese velocemente le scale e con passo deciso si diresse alla stazione, per prendere il treno delle sette, che lo avrebbe portato in città.
La locomotiva, pigramente, tra sbuffi e nuvole di fumo iniziò a muoversi, salutando la stazioncina con un brevissimo fischio, che sembrò a tutti più acuto del solito; il giovane pittore, dopo aver sbirciato se fosse salita sul treno anche Elena, la ragazza di cui era segretamente innamorato, andò a sedersi al suo solito posto.
- “Prima di Natale”- pensava tra sé –“Parlerò con Elena e le dirò tutto…” –
Dopo pochi minuti, il treno si arrestò, per la prima delle quattro fermate previste.
Tommaso non ci fece caso, abituato com’era a quel tragitto, ma non appena la locomotiva ricominciò ad arrancare sui binari, si accorse di qualcosa di nuovo: una bambina, dai capelli rossi, accompagnata da una anziana suora, si era affacciata nello scompartimento, per poi sedersi, proprio di fronte a lui, sempre tenendo per mano la sua accompagnatrice.
Tommaso non aveva mai visto quella bambina e, sorridendo alla suora che lo stava osservando, pensò che, probabilmente, si trattasse di una piccola ospite dell’Orfanotrofio di quel piccolo paese.
- “Ciao, come ti chiami?” – chiese Tommaso piegandosi verso la bambina, che pareva incantata.
- “Da brava: rispondi, cara…” – la esortò la suora con tono dolce.
- “Mi chiamo Marinella, signore…” – “e tu, come ti chiami?” – rispose la bambina, unendo le piccole mani sul petto.
- “Mi chiamo Tommaso…” -
Nel rispondere alla bambina, il giovane pittore fece per allungare la mano, in segno di saluto, ma si accorse che la suora, scuotendo il capo ed avvicinando un indice ai propri occhi, voleva fargli capire qualcosa, senza che Marinella se ne accorgesse.
La bambina non si sarebbe mai accorta della mano protesa verso di lei: Marinella era una bambina cieca; lo era dalla nascita.
Eppure i suoi occhi, di un incantevole azzurro, così acceso e vivace, erano inaspettatamente espressivi ed intensi e trasmettevano una insolita serenità, come se riuscissero a “vedere” soltanto l’anima delle persone...
Tommaso rimase molto colpito da quell’incontro e per tutta la giornata non fece che pensare, rattristandosene, a quegli occhi innocenti colore del cielo, chiusi sul mondo…
Per diversi giorni, suor Letizia e Marinella presero lo stesso treno di Tommaso, poi, improvvisamente, il giovane pittore non le vide più.
Tommaso, però, si era molto affezionato a Marinella: decise che, un giorno, sarebbe andato a trovarla all’Orfanotrofio ed avrebbe trascorso una giornata con lei, tenendole compagnia.
Una sera, Tommaso si risvegliò d’improvviso, per il boato di un tuono. Si era addormentato sulla poltrona, davanti al caminetto, ma l’arrivo di un violentissimo temporale aveva interrotto il suo sonno, ed aveva spaventato il gatto, che era corso a nascondersi.
Il giovane pittore, colto da una improvvisa ispirazione, afferrò il carboncino ed il blocco dei fogli da disegno, appoggiati sul tavolino ed iniziò a fissare qualcosa sulla carta bianca. Il suo pensiero cadde su Marinella…
Abilmente le sue mani cominciarono a danzare, volteggiando sicure sul foglio, sul quale, dopo pochi minuti, apparve il disegno di due intensi occhi chiari: quelli della bambina cieca…
“Povera bambina…” – pensò, nel frattempo – “Perché i tuoi occhi non possono che vedere il buio delle tue giornate…? Perché…?” -
Terminato il disegno, Tommaso, colto da un torpore profondo e da un insolito bruciore agli occhi, si riaddormentò; il temporale, intanto, si era ormai allontanato…
La mattina dopo, svegliandosi e riaprendo gli occhi, Tommaso si accorse di non vederci più…, ma, incredibilmente, non se ne sorprese più di tanto. Inspiegabilmente, inoltre, i due occhi disegnati qualche ora prima erano spariti dal foglio di carta, come se fossero stati accuratamente cancellati da una mano invisibile. Ma di questo particolare, Tommaso non si sarebbe mai accorto...
Nello stesso istante, all’Orfanotrofio, Marinella, tenendo tra le mani un’arancia ed una mela, correva sicura verso suor Letizia, paralizzata dallo stupore e visibilmente commossa, chiedendo felice:
- “Suor Letizia, sono questi i colori, non è vero…? Sono questi…?” -
- “Sì, bambina mia…, sì…!: sono quelli, i colori…! –
Cacciatelo via quell'animale! Cacciatelo via!
Non sono mai riuscito a riposare, dopo pranzo, neanche quando ero bambino: ricordo ancora i rabbuffi di mio padre quando, stanco dopo il lavoro in ufficio, cercava di dormire un paio d'ore almeno, mentre io, del tutto sordo ai suoi richiami, correvo e saltellavo per la casa senza il minimo rispetto per lui.
E adesso, dopo tanti anni, ormai sicuro di tutto ciò che è “il rispetto” altrui, pur vivendo da solo e per questo immerso in una pacata quiete, non posso immaginare di volermi arrendere a quel riposo pomeridiano..., neanche avessi appena sostenuto un'estenuante prova; anche perché, in fondo, mi sono abituato a dividere con me stesso il peso di una tavola vuota e di una casa assopita.
Per questo tutti i giorni, o almeno quando il tempo me lo consente, appena dopo aver pranzato mi piace rifugiarmi sul balcone, non quello dello studio, che dà sul cortile, ma quello del salone che si affaccia discreto su Piazza Garibaldi.
E, come sempre, mi ritrovo ad incrociare lo sguardo come quello fermo e austero di Garibaldi, così fiero su quel cavallo, ormai imbrunito e per nulla stanco di sorreggere, da chissà quanti anni, l'importanza di un tale personaggio.
Sono affezionato a quel volto: è rassicurante la sua presenza; quando è giorno di mercato e tende e tendoni invadono la piazza, tra il vociare confuso della gente, non posso fare a meno di sorridere nello scorgere quella sua inconfondibile espressione, non saprei se tollerante o spazientita, come se per quella mattina ci avesse permesso di affollare disordinatamente la piazza..., la sua piazza!
Chissà, poi, quanti e quali segreti gli sono stati incautamente confessati dalla gente che, ingenuamente incurante della sua presenza, corre a cercare intimità ai suoi piedi; a parlare fitto-fitto di questa o quell'altra persona e di affari più o meno immacolati.
A quest'ora della tarda mattinata, per la verità, di gente in giro ce n'è poca: qualche ragazzo attraversa correndo la piazza con la borsa della scuola in spalla; Antonio, il vecchio postino del paese, torna a casa in bicicletta e, come d'abitudine, mi saluta con un cenno del capo che, prontamente, gli restituisco.
E torno ad immergermi nel miei pensieri.
Ricordo una domenica mattina, credo fossimo in Luglio; la piazza splendeva di un magnifico sole e le urla festose dei ragazzini usciti dalla Chiesa si confondevano con il suono allegro delle campane.
Io ero appena rincasato con il giornale e mi apprestavo a pranzare, ma un grido attirò la mia attenzione:
“Correte...., correte! Venite a vedere!”.
Mi affacciai dal balcone del salone ma, evidentemente, tutti si erano già riversati nel cortile interno; chiedendomi cosa mai potesse essere accaduto mi diressi al terrazzino dello studio.
“Guardate, guardate lì dentro!” urlava tutto eccitato Mario, il più vivace di tutti quei marmocchi.
“Mario....! Cosa stai combinando? Vieni su, muoviti!” era sua madre, la signora Lucia che, asciugandosi le mani con uno straccio visibilmente lacero, richiamava il figlio senza, tuttavia, esserne convinta ma, al contrario, curiosa di sapere, forse più degli altri, cosa mai ci fosse di così strano da vedere.
“Io non vedo proprio un bel niente..., perché: cosa c'è?”, chiese Michele manifestando una sottile incredulità, comune anche agli altri bambini.
“Ma cosa non vedi niente? Sei il solito tonto, tu! Sì mamma...., arrivo. Ancora un momento!”, replicò Mario un po' seccato mentre, mettendosi carponi indicava qualcosa che, per ora, aveva visto solo lui.
“Dai bambini, toglietevi.” intervenne il signor Ghezzi, padre di Michele, “e tu Mario vuoi dirmi cosa c'è qui dentro?”.
C'era a quel tempo, abbandonato nel cortile, uno sgangherato pianoforte verticale, con la cassa armonica rotta da un lato, che doveva essere appartenuto, a quanto ne so io, ad un anziano professore di musica che, prima di trasferirsi a Roma con la figlia, lo aveva lasciato lì, promettendo che, prima o poi, sarebbe tornato per portarselo via.
Per anni del professore e di sua figlia non si seppe nulla, ma una mattina ci accorgemmo che il pianoforte o, meglio, quel che ne restava, era sparito. Chissà se fu davvero il professore che si ricordò della promessa...
”Non so cosa sia di preciso...” continuava Mario “Deve essere un brutto animale; è tutto peloso e voleva anche mordermi qui, proprio qui sulla mano!”.
“Stai attento a quello che fai!”, sentenziò la signora Lucia dal balcone.
“Attenti! Attenti: è uscito fuori! Eccolo là.....; sta scappando: vuole andare in cantina”, gridò qualcuno, ma non seppi individuare chi fosse stato.
Dal balcone dello studio non vedevo bene quanto stesse succedendo, anche perché bambini e genitori avevano formato una sorta di recinto umano che intrappolava quella bestia: volli scendere in cortile.
Socchiudendo l'uscio incontrai la signora Lucia che, con una scopa in mano, si affrettava a raggiungere il figlio.
“So ben io cosa si deve fare con questi animali! Quelli sono pericolosi, lo sa?”, mi disse senza nemmeno guardarmi.
“Non lo so.”, le risposi sottovoce.
“Vengo, vengo giù!, continuò la signora agitando minacciosa quella scopa che, in mano sua, sembrava un fucile carico.
“Mamma, mamma! E' lì, lo vedi?” la accolse Mario.
Sembravano tutti terrorizzati, in preda a non so quale fobia; mi feci largo e, finalmente, vidi anch'io: chiuso in un angolo, tremante, con gli occhi sbarrati e le orecchie basse, soffiando come una vecchia caffettiera c'era un gatto..., sì, proprio un gatto bianco, sporco di polvere e ragnatele, arrivato chissà da dove per rifugiarsi in quella carcassa di pianoforte.
Fu più forte di me: scoppiai a ridere scuotendo la testa.
La signora Lucia, indignata, trascinò con sé Mario e si avviò verso la scala.
“Ma mamma, fammi vedere dai!”, insisteva il ragazzino.
“ Zitto e cammina: è tardi per giocare!”, lo ammutoliva la signora.
“Cacciatelo via quell'animale! Cacciatelo via!”, disse qualcuno.
Nel volgere di un paio di minuti il cortile tornò tranquillo.
Sono passati tanti anni da quel giorno eppure ancora oggi, quando la tremolante luce del caminetto acceso illumina “Pappo”, il mio gatto bianco, serenamente addormentato sulla poltrona, non posso fare a meno di ricordare quelle parole:
“Cacciatelo via quell'animale! Cacciatelo via!
E adesso, dopo tanti anni, ormai sicuro di tutto ciò che è “il rispetto” altrui, pur vivendo da solo e per questo immerso in una pacata quiete, non posso immaginare di volermi arrendere a quel riposo pomeridiano..., neanche avessi appena sostenuto un'estenuante prova; anche perché, in fondo, mi sono abituato a dividere con me stesso il peso di una tavola vuota e di una casa assopita.
Per questo tutti i giorni, o almeno quando il tempo me lo consente, appena dopo aver pranzato mi piace rifugiarmi sul balcone, non quello dello studio, che dà sul cortile, ma quello del salone che si affaccia discreto su Piazza Garibaldi.
E, come sempre, mi ritrovo ad incrociare lo sguardo come quello fermo e austero di Garibaldi, così fiero su quel cavallo, ormai imbrunito e per nulla stanco di sorreggere, da chissà quanti anni, l'importanza di un tale personaggio.
Sono affezionato a quel volto: è rassicurante la sua presenza; quando è giorno di mercato e tende e tendoni invadono la piazza, tra il vociare confuso della gente, non posso fare a meno di sorridere nello scorgere quella sua inconfondibile espressione, non saprei se tollerante o spazientita, come se per quella mattina ci avesse permesso di affollare disordinatamente la piazza..., la sua piazza!
Chissà, poi, quanti e quali segreti gli sono stati incautamente confessati dalla gente che, ingenuamente incurante della sua presenza, corre a cercare intimità ai suoi piedi; a parlare fitto-fitto di questa o quell'altra persona e di affari più o meno immacolati.
A quest'ora della tarda mattinata, per la verità, di gente in giro ce n'è poca: qualche ragazzo attraversa correndo la piazza con la borsa della scuola in spalla; Antonio, il vecchio postino del paese, torna a casa in bicicletta e, come d'abitudine, mi saluta con un cenno del capo che, prontamente, gli restituisco.
E torno ad immergermi nel miei pensieri.
Ricordo una domenica mattina, credo fossimo in Luglio; la piazza splendeva di un magnifico sole e le urla festose dei ragazzini usciti dalla Chiesa si confondevano con il suono allegro delle campane.
Io ero appena rincasato con il giornale e mi apprestavo a pranzare, ma un grido attirò la mia attenzione:
“Correte...., correte! Venite a vedere!”.
Mi affacciai dal balcone del salone ma, evidentemente, tutti si erano già riversati nel cortile interno; chiedendomi cosa mai potesse essere accaduto mi diressi al terrazzino dello studio.
“Guardate, guardate lì dentro!” urlava tutto eccitato Mario, il più vivace di tutti quei marmocchi.
“Mario....! Cosa stai combinando? Vieni su, muoviti!” era sua madre, la signora Lucia che, asciugandosi le mani con uno straccio visibilmente lacero, richiamava il figlio senza, tuttavia, esserne convinta ma, al contrario, curiosa di sapere, forse più degli altri, cosa mai ci fosse di così strano da vedere.
“Io non vedo proprio un bel niente..., perché: cosa c'è?”, chiese Michele manifestando una sottile incredulità, comune anche agli altri bambini.
“Ma cosa non vedi niente? Sei il solito tonto, tu! Sì mamma...., arrivo. Ancora un momento!”, replicò Mario un po' seccato mentre, mettendosi carponi indicava qualcosa che, per ora, aveva visto solo lui.
“Dai bambini, toglietevi.” intervenne il signor Ghezzi, padre di Michele, “e tu Mario vuoi dirmi cosa c'è qui dentro?”.
C'era a quel tempo, abbandonato nel cortile, uno sgangherato pianoforte verticale, con la cassa armonica rotta da un lato, che doveva essere appartenuto, a quanto ne so io, ad un anziano professore di musica che, prima di trasferirsi a Roma con la figlia, lo aveva lasciato lì, promettendo che, prima o poi, sarebbe tornato per portarselo via.
Per anni del professore e di sua figlia non si seppe nulla, ma una mattina ci accorgemmo che il pianoforte o, meglio, quel che ne restava, era sparito. Chissà se fu davvero il professore che si ricordò della promessa...
”Non so cosa sia di preciso...” continuava Mario “Deve essere un brutto animale; è tutto peloso e voleva anche mordermi qui, proprio qui sulla mano!”.
“Stai attento a quello che fai!”, sentenziò la signora Lucia dal balcone.
“Attenti! Attenti: è uscito fuori! Eccolo là.....; sta scappando: vuole andare in cantina”, gridò qualcuno, ma non seppi individuare chi fosse stato.
Dal balcone dello studio non vedevo bene quanto stesse succedendo, anche perché bambini e genitori avevano formato una sorta di recinto umano che intrappolava quella bestia: volli scendere in cortile.
Socchiudendo l'uscio incontrai la signora Lucia che, con una scopa in mano, si affrettava a raggiungere il figlio.
“So ben io cosa si deve fare con questi animali! Quelli sono pericolosi, lo sa?”, mi disse senza nemmeno guardarmi.
“Non lo so.”, le risposi sottovoce.
“Vengo, vengo giù!, continuò la signora agitando minacciosa quella scopa che, in mano sua, sembrava un fucile carico.
“Mamma, mamma! E' lì, lo vedi?” la accolse Mario.
Sembravano tutti terrorizzati, in preda a non so quale fobia; mi feci largo e, finalmente, vidi anch'io: chiuso in un angolo, tremante, con gli occhi sbarrati e le orecchie basse, soffiando come una vecchia caffettiera c'era un gatto..., sì, proprio un gatto bianco, sporco di polvere e ragnatele, arrivato chissà da dove per rifugiarsi in quella carcassa di pianoforte.
Fu più forte di me: scoppiai a ridere scuotendo la testa.
La signora Lucia, indignata, trascinò con sé Mario e si avviò verso la scala.
“Ma mamma, fammi vedere dai!”, insisteva il ragazzino.
“ Zitto e cammina: è tardi per giocare!”, lo ammutoliva la signora.
“Cacciatelo via quell'animale! Cacciatelo via!”, disse qualcuno.
Nel volgere di un paio di minuti il cortile tornò tranquillo.
Sono passati tanti anni da quel giorno eppure ancora oggi, quando la tremolante luce del caminetto acceso illumina “Pappo”, il mio gatto bianco, serenamente addormentato sulla poltrona, non posso fare a meno di ricordare quelle parole:
“Cacciatelo via quell'animale! Cacciatelo via!
Un'impressione sbagliata
Non riuscivo a sopportarla. No, proprio non potevo tollerare quell'aria altezzosa, quasi schizzinosa, dipinta sul viso della signora Priori che, ogni qualvolta passasse davanti alla mia guardiola, sembrava volesse rinfacciarmi il fatto di essere io, il portinaio di un elegantissimo condominio, e lei la direttrice della banca più importante della città.
A volte avevo la netta impressione che volesse farmi sentire compatito e tollerato dal prestigio che si respirava (aria pesante e quantomai fasulla), in ogni angolino del palazzo, perfino nel sottoscala.
Non so quante volte sono stato sul punto di esplodere, di fermarla; di afferrarla per quelle sue spalle rinsecchite e di chiederle, guardandola fissa negli occhi, che cosa mai le avessi fatto, chi credesse di essere per squadrarmi ogni volta in quel modo.
Ricordo che ne parlai anche con Alfonso, il portinaio del condominio di fronte, anche lui prossimo alla pensione, ma ebbi l'impressione che non prendesse sul serio il mio sfogo:
- Cosa vuoi che ti dica, caro Nicola – mi disse soffiandosi il naso – Sono persone fatte così...! Accidenti al raffreddore -
Mi convinsi di non essere riuscito a descrivere il mio profondo imbarazzo; anche per questo, forse, Alfonso mi sembrò seccato, a un certo punto, di starmi a sentire. Cambiai discorso, allora, e scivolai nella più banale delle conversazioni:
- E a casa, Alfonso, stanno tutti bene? - , domandai.
- Eh..., ah sì..., sì grazie, Nicola: tutti bene... sì! C'è Francesco che mi fa arrabbiare un po', ma per il resto va tutto bene, sì; proprio tutto bene! -, rispose lui fissando una chiave che teneva con entrambe le mani.
Francesco è il più piccolo dei quattro figli di Alfonso; in quel periodo, se non vado errato, frequentava la seconda elementare ma, a quanto ne sapevo, non era proprio entusiasta di dover passare le mattinate, anche quando c'era il sole, chiuso tra quattro vecchi muri, incollato ad un banco zoppo ad ascoltare per ore i discorsi e le belle parole della signorina Paola. Povera maestra: quel Francesco la faceva davvero tribolare; tra scherzi, urla e quaderni strappati era un vero flagello da mettere in riga!
- Beh, Alfonso, devi capire …, - obbiettai, mentre ricaricavo il mio orologio da taschino, - Francesco è un ragazzino vispo; allegro, spensierato: come puoi pretendere che, alla sua età, se ne stia zitto zitto e senza muoversi per quattro ore filate? E poi, vecchio mio, non tutti sono portati allo studio! - .
Non l'avessi mai detto: Alfonso si alzò di scatto; pagò il suo caffè (e il mio), e si allontanò in fretta.
- Arrivederci Nicola! - mi disse senza voltarsi, - Ci vediamo stasera. - e mi piantò in asso, come si fa con i seccatori ostinati, senza nemmeno darmi il tempo di ringraziarlo e di salutarlo a mia volta.
C'è poco da dire, ho fatto proprio bene a non mettere su famiglia: se soltanto immagino i problemi che quel poveraccio di Alfonso deve risolvere (ammesso che ci riesca, poi), ogni santo giorno …, mi sento mancare l'aria!
Un pomeriggio passeggiavo davanti al portone e già assaporavo la gioia che avrei provato nei prossimi due giorni, visto che la signora Priori era dovuta partire, per raggiungere non so chi e non so dove, e si sarebbe trattenuta lì.
- Nicola, Nicola! - , mi sentii chiamare.
Era quel birbante di Francesco.
- Cosa c'è, Francesco; non sei a scuola? -, domandai.
- Ma la scuola è chiusa di pomeriggio..., non lo sai? -, ridacchiò lui tutto contento.
- Certo, certo che lo so, ma non ci pensavo! -, mi giustificai prontamente.
Per essere sincero non mi aspettavo questo incontro, anche perché Francesco non veniva mai a giocare qui, in strada: c'era un bel cortile per divertirsi, nel condominio di fronte.
- Cosa vuoi, Francesco? Non ti va di giocare con gli altri bambini, nel cortile? - chiesi curioso.
Di tutta risposta Francesco inizio a sommergermi di numeri, in una cantilena regolare che mi lasciò di stucco:
- Cinque per uno è uguale a cinque, cinque per due è uguale a dieci; cinque per tre è uguale a quindici...! -, continuava imperterrito, battendo col piedino sul marciapiede.
Ero allibito e certamente non sarei mai riuscito a spiegarmi il comportamento del piccolo Francesco, se non mi fossi accorto che il bambino, di tanto in tanto, tra un numero e l'altro, lanciava furtivo occhiate al portone dirimpetto, dove potei notare, immerso nella penombra dell'andito, Alfonso, che se ne stava attento a godersi lo spettacolo.
Quella frase che, qualche giorno prima, avevo buttato lì tanto per riempire una conversazione che non prometteva niente di buono, doveva aver talmente scosso l'orgoglio di Alfonso, dell'Alfonso padre, voglio dire, che voleva, adesso, farmi capire che il suo Francesco non era meno intelligente di tutti gli altri marmocchi della sua età.
- Hai visto? Sono bravo? Eh, Nicola? -, incalzava Francesco tirandomi la giacca.
- Sì, davvero bravo! -, gli risposi carezzandogli i capelli, - Dì a papà che sei proprio uno scolaretto modello! -.
Francesco sorrise e se ne ritornò di corsa nel suo cortile, e da sua padre.
Se fossi stato commosso o divertito, non saprei dirlo..., forse tutt'e due le cose.
Quei due giorni passarono in fretta e la mattina del terzo eccola di nuovo: la signora Priori.
Quel suo viso ben truccato; il sopracciglio lievemente alzato; insomma quell'aria scanzonatoria insopportabile mi fece uscire di me:
- Signora Priori …! -, la chiamai seccato.
- Buongiorno, signor Nicola. C'è qualcosa che potrei fare per lei? -, mi rispose sfilandosi un guanto.
La sua inaspettata gentilezza; i modi garbati del suo dire mi frastornarono un istante e mi accorsi, mentre la guardavo in viso, che la sua bocca si storceva leggermente da un lato, nel parlare, così come quel sopracciglio tanto intollerabile, sembrava forzatamente trattenuto in quella fastidiosa posizione.
Una paresi, dunque..., una disgraziatissima paresi facciale era la causa di tutto il mio risentimento verso quella persona.
- Signor Nicola, mi scusi...! C'è qualcosa che non va? -, insistette la signora, notando il mio imbarazzo.
Non sapevo più cosa dire; dove nascondermi: ero così deciso a cantargliene quattro, a farla finalmente finita con questa assurda situazione, che non ero preparato a dovermi sobbarcare, da solo, tutto il peso di un errore così penoso; di una valutazione così avventata e superficiale, che mi aveva autorizzato a sentirmi il più maltrattato dei pover'uomini e che ora, alla luce dei fatti, mi faceva sentire un bambino viziato già stufo della sua bicicletta nuova.
Mi vergognai profondamente e non riuscii a spiegare nulla alla ignara signora Priori, o forse non volli farlo...
- Oh, niente, signora! Sono contento di rivederla -, replicai cercando nervosamente nelle mie tasche qualcosa che non c'era mai stato.
- Anch'io, caro Nicola! Arrivederci! - , mi salutò indugiando qualche attimo.
- Buongiorno a lei, signora! Buongiorno a lei! -
A volte avevo la netta impressione che volesse farmi sentire compatito e tollerato dal prestigio che si respirava (aria pesante e quantomai fasulla), in ogni angolino del palazzo, perfino nel sottoscala.
Non so quante volte sono stato sul punto di esplodere, di fermarla; di afferrarla per quelle sue spalle rinsecchite e di chiederle, guardandola fissa negli occhi, che cosa mai le avessi fatto, chi credesse di essere per squadrarmi ogni volta in quel modo.
Ricordo che ne parlai anche con Alfonso, il portinaio del condominio di fronte, anche lui prossimo alla pensione, ma ebbi l'impressione che non prendesse sul serio il mio sfogo:
- Cosa vuoi che ti dica, caro Nicola – mi disse soffiandosi il naso – Sono persone fatte così...! Accidenti al raffreddore -
Mi convinsi di non essere riuscito a descrivere il mio profondo imbarazzo; anche per questo, forse, Alfonso mi sembrò seccato, a un certo punto, di starmi a sentire. Cambiai discorso, allora, e scivolai nella più banale delle conversazioni:
- E a casa, Alfonso, stanno tutti bene? - , domandai.
- Eh..., ah sì..., sì grazie, Nicola: tutti bene... sì! C'è Francesco che mi fa arrabbiare un po', ma per il resto va tutto bene, sì; proprio tutto bene! -, rispose lui fissando una chiave che teneva con entrambe le mani.
Francesco è il più piccolo dei quattro figli di Alfonso; in quel periodo, se non vado errato, frequentava la seconda elementare ma, a quanto ne sapevo, non era proprio entusiasta di dover passare le mattinate, anche quando c'era il sole, chiuso tra quattro vecchi muri, incollato ad un banco zoppo ad ascoltare per ore i discorsi e le belle parole della signorina Paola. Povera maestra: quel Francesco la faceva davvero tribolare; tra scherzi, urla e quaderni strappati era un vero flagello da mettere in riga!
- Beh, Alfonso, devi capire …, - obbiettai, mentre ricaricavo il mio orologio da taschino, - Francesco è un ragazzino vispo; allegro, spensierato: come puoi pretendere che, alla sua età, se ne stia zitto zitto e senza muoversi per quattro ore filate? E poi, vecchio mio, non tutti sono portati allo studio! - .
Non l'avessi mai detto: Alfonso si alzò di scatto; pagò il suo caffè (e il mio), e si allontanò in fretta.
- Arrivederci Nicola! - mi disse senza voltarsi, - Ci vediamo stasera. - e mi piantò in asso, come si fa con i seccatori ostinati, senza nemmeno darmi il tempo di ringraziarlo e di salutarlo a mia volta.
C'è poco da dire, ho fatto proprio bene a non mettere su famiglia: se soltanto immagino i problemi che quel poveraccio di Alfonso deve risolvere (ammesso che ci riesca, poi), ogni santo giorno …, mi sento mancare l'aria!
Un pomeriggio passeggiavo davanti al portone e già assaporavo la gioia che avrei provato nei prossimi due giorni, visto che la signora Priori era dovuta partire, per raggiungere non so chi e non so dove, e si sarebbe trattenuta lì.
- Nicola, Nicola! - , mi sentii chiamare.
Era quel birbante di Francesco.
- Cosa c'è, Francesco; non sei a scuola? -, domandai.
- Ma la scuola è chiusa di pomeriggio..., non lo sai? -, ridacchiò lui tutto contento.
- Certo, certo che lo so, ma non ci pensavo! -, mi giustificai prontamente.
Per essere sincero non mi aspettavo questo incontro, anche perché Francesco non veniva mai a giocare qui, in strada: c'era un bel cortile per divertirsi, nel condominio di fronte.
- Cosa vuoi, Francesco? Non ti va di giocare con gli altri bambini, nel cortile? - chiesi curioso.
Di tutta risposta Francesco inizio a sommergermi di numeri, in una cantilena regolare che mi lasciò di stucco:
- Cinque per uno è uguale a cinque, cinque per due è uguale a dieci; cinque per tre è uguale a quindici...! -, continuava imperterrito, battendo col piedino sul marciapiede.
Ero allibito e certamente non sarei mai riuscito a spiegarmi il comportamento del piccolo Francesco, se non mi fossi accorto che il bambino, di tanto in tanto, tra un numero e l'altro, lanciava furtivo occhiate al portone dirimpetto, dove potei notare, immerso nella penombra dell'andito, Alfonso, che se ne stava attento a godersi lo spettacolo.
Quella frase che, qualche giorno prima, avevo buttato lì tanto per riempire una conversazione che non prometteva niente di buono, doveva aver talmente scosso l'orgoglio di Alfonso, dell'Alfonso padre, voglio dire, che voleva, adesso, farmi capire che il suo Francesco non era meno intelligente di tutti gli altri marmocchi della sua età.
- Hai visto? Sono bravo? Eh, Nicola? -, incalzava Francesco tirandomi la giacca.
- Sì, davvero bravo! -, gli risposi carezzandogli i capelli, - Dì a papà che sei proprio uno scolaretto modello! -.
Francesco sorrise e se ne ritornò di corsa nel suo cortile, e da sua padre.
Se fossi stato commosso o divertito, non saprei dirlo..., forse tutt'e due le cose.
Quei due giorni passarono in fretta e la mattina del terzo eccola di nuovo: la signora Priori.
Quel suo viso ben truccato; il sopracciglio lievemente alzato; insomma quell'aria scanzonatoria insopportabile mi fece uscire di me:
- Signora Priori …! -, la chiamai seccato.
- Buongiorno, signor Nicola. C'è qualcosa che potrei fare per lei? -, mi rispose sfilandosi un guanto.
La sua inaspettata gentilezza; i modi garbati del suo dire mi frastornarono un istante e mi accorsi, mentre la guardavo in viso, che la sua bocca si storceva leggermente da un lato, nel parlare, così come quel sopracciglio tanto intollerabile, sembrava forzatamente trattenuto in quella fastidiosa posizione.
Una paresi, dunque..., una disgraziatissima paresi facciale era la causa di tutto il mio risentimento verso quella persona.
- Signor Nicola, mi scusi...! C'è qualcosa che non va? -, insistette la signora, notando il mio imbarazzo.
Non sapevo più cosa dire; dove nascondermi: ero così deciso a cantargliene quattro, a farla finalmente finita con questa assurda situazione, che non ero preparato a dovermi sobbarcare, da solo, tutto il peso di un errore così penoso; di una valutazione così avventata e superficiale, che mi aveva autorizzato a sentirmi il più maltrattato dei pover'uomini e che ora, alla luce dei fatti, mi faceva sentire un bambino viziato già stufo della sua bicicletta nuova.
Mi vergognai profondamente e non riuscii a spiegare nulla alla ignara signora Priori, o forse non volli farlo...
- Oh, niente, signora! Sono contento di rivederla -, replicai cercando nervosamente nelle mie tasche qualcosa che non c'era mai stato.
- Anch'io, caro Nicola! Arrivederci! - , mi salutò indugiando qualche attimo.
- Buongiorno a lei, signora! Buongiorno a lei! -
Il Ragno buono
C’era una volta una Primavera: una delle tante, per il nostro vecchio Mondo, ma la prima della breve vita di una splendida Farfalla appena nata.
Sostenuta dal vento e sospinta dalla acerba curiosità, la Farfalla si infilò nel fitto bosco, ma non fece in tempo a guardarsi intorno che si ritrovò prigioniera della tela di Ragno.
“Lasciami andare”, implorò la Farfalla, “Saprò sdebitarmi…!”
“E come!?”, rispose il Ragno avvicinandosi minaccioso.
“Non lo so ancora…”, replicò la Farfalla, tremando.
Impietositosi, il Ragno la liberò.
Sostenuta dal vento e sospinta dalla acerba curiosità, la Farfalla si infilò nel fitto bosco, ma non fece in tempo a guardarsi intorno che si ritrovò prigioniera della tela di Ragno.
“Lasciami andare”, implorò la Farfalla, “Saprò sdebitarmi…!”
“E come!?”, rispose il Ragno avvicinandosi minaccioso.
“Non lo so ancora…”, replicò la Farfalla, tremando.
Impietositosi, il Ragno la liberò.
E giunse un gelido Inverno… ricordandosi della promessa, la Farfalla, ormai morente, donò al Ragno le proprie ali.
Avvolto in esse, il Ragno sopravvisse al freddo.
Avvolto in esse, il Ragno sopravvisse al freddo.